Un'altra sera, come tante. Sono le nove passate di un qualsiasi sabato, e la gente comincia ad arrivare. C'è già un distinto signore anziano, seduto accanto al bancone a ridosso del pianoforte, che sta facendo l'amore con il suo gin tonic, mentre mi siedo sullo sgabello. Non so se sia un sorriso quello che mi fa, i suoi occhi sono troppo svelti ad abbassarsi, ma la sua voce pacata è indubbiamente rivolta a me: «Figliolo,» mi dice, «puoi suonarci quella melodia?... non so più come fa, so solo che era dolce e triste, e la ricordavo perfettamente quando indossavo ancora abiti da giovanotto!» Quell'anziano signore voleva che gli suonassi i suoi ricordi, ecco ciò che voleva che suonassi. La folla fluisce regolarmente, e in sottofondo comincia il brusio di quelle conversazioni intime, crepuscolari, che si stemperano nelle note che io stesso metto nell'aria. Un po' di allegria, perdiana, protestano le mie dita e da sole si permettono qualche scaletta jazz, qualche arpeggio cristallino, che si confonda col tintinnare dei bicchieri ed il sorriso rilassato di anime ben disposte per la serata. Poi, preso dal dondolio delle teste di chi si accosta al piano bar, comincio a cantare. Cantaci una canzone, sei il pianista, sembrano dire gli sguardi; suona per noi stasera, perché siamo in vena di melodia, e devi farci sentire bene, stasera!
Ora, John, al bar, è mio amico e a volte mi offre da bere gratis; è un tipo simpatico, scherzoso, pronto alla battuta coi clienti, o con l'accendino per i loro sigari. Però si vede che ha in mente qualche altro posto, dove vorrebbe trovarsi. Mi confida all'orecchio: «Bill, credo che tutto questo mi ucciderà, se non cambio aria! Ma quando sarò una star del cinema, credo anche che lo rimpiangerò!» Un bel tipo, John, ci sa fare. C'è Paul, l'immobiliarista, e David, l'ufficiale di marina; più in là vedo le solite facce: la cameriera universitaria, il manager e la coppietta...