Questa storia è presente nel magazine Trecentosessantacinque
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Pubblicato il 07 dicembre 2018 in Altro
Il tuo nome continuava a lampeggiare sul display del mio cellulare, insistente come la tua assenza.
Ho raccolto il coraggio e l'ho indossato sulle spalle come una spessa coperta, ho risposto a quel dannato telefono che non smetteva di vibrare.
Pronto?
Il lavoro, la pioggia, i progetti futuri, abbiamo parlato di tutto quello di cui sanno parlare due persone estranee. Siamo rimasti in territorio neutrale, in una zona in cui non c'erano nè oggeti contundenti da lanciare nè recriminazioni da poter fare. Ci siamo concessi persino un paio di risate.
Ho preso una casa. Non l'ho ancora detto a nessuno.
Ma io non sono la Svizzera, i campi neutri mi mettono a disagio, perciò ho sganciato la bomba sfruttando un tuo attimo di silenzio. Te l'ho detto con un'inflessione vocale stridula, troppo velocemente, senza tener conto delle possibili reazioni.
Sei rimasto in silenzio ancora per qualche secondo e poi hai iniziato il tuo solito interrogatorio.
Da sola?
No.
Mi hai dimenticato allora?
Ho dovuto.
Quanto è grande la casa?
Quanto il vuoto che ho dovuto colmare.
E' passato quasi un anno, eppure a volte alcune cicatrici tornano ad essere delle ferite, come fosse un'involuzione del dolore.
Sei innamorata quindi?
Sì.
Forse il nostro era un amore impossibile.
Eri tu quello impossibile.
Sai anche io forse prenderò una casa.
Da solo?
No.
Ma ora tu ed io cosa siamo?
Tu un cretino, io una donna felice.
Ops! Sembra che tu abbia un po' esagerato, assicuraci che tu non sia un robot!
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