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Pubblicato il 15 marzo 2021 in Recensioni
Chi pensa che la “generazione Z” non abbia niente di interessante da dire, sia pronto a ricredersi.
E altrettanto faccia chi è convinto che il mondo in cui viviamo o, nella fattispecie, la scena rap, sia degli sgarbati o di chi non ha la fedina penale propriamente immacolata.
Crescere per strada, dalle mie parti, forse non significa povertà.
Non significa necessariamente scarsa istruzione.
Non significa - non ancora - rimanere succubi della legge della giungla.
La strada, per un ragazzo di molte realtà sarde, è un terreno di gioco e di confronto tra pari, in cui poter guardare le stelle la sera e vederle nitidamente, in cui diventare adulti è segnato da tappe precise.
La crudeltà si identifica più che altro nell’invidia e nella maldicenza, o nelle crepe di un’amicizia idealizzata ma non scevra di cupi voltafaccia.
Ma le strade sono anche i sentieri della Sardegna, che confluiscono verso un entroterra amato/odiato, nelle sue scarse prospettive (nel quale è possibile sopravvivere solo cambiando sovente pelle, come i serpenti) o si gettano verso il mare.
Ed il mare rappresenta sogno e speranza di qualcosa di più, eco di un mondo più variegato e ricco, anche materialmente.
Il mare (SK conosce bene Cagliari, in cui studia) è anche mondo esotico, richiamo evocato di territori, anche onirici, lontani.
L’amore è messo a fuoco come un morso all’anima ed un qualcosa che vela di tristezza gli occhi.
Infine, la musica.
Conoscerla e praticarla, comporla (con istinto e propensione fuori del comune) significa trovare un altro terreno di gioco e di confronto tra pari, collaborare con altri appassionati.
Se questo è l’underground odierno, beh, le speranze per il futuro sono quanto di meglio ci si possa augurare.
Tutto questo - parafrasando il grande Marracash - è SK, e quel poco di innocenza che è rimasto.
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Ops! Sembra che tu abbia un po' esagerato, assicuraci che tu non sia un robot!
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